Al capitolo 18 del libro della Genesi è raccontato un fatto abbastanza singolare e significativo. Abramo e Sara, già avanti negli anni, non avevano ancora un figlio che potesse proseguire la generazione. Un giorno mentre Abramo era assopito sotto una quercia, a Mamre, viene raggiunto improvvisamente da tre stranieri che chiedono ospitalità. Abramo non si preoccupa di sapere chissà quali cose su di loro e con prontezza coinvolge anche la moglie Sara in un rito di accoglienza delicata e generosa. Solo dopo Abramo e Sara comprendono che avevano ricevuto la visita del Signore stesso, a cui da tempo stavano chiedendo il dono di un figlio. Essi, attraverso l’accoglienza riservata all’ospite, ricevono la fecondità e la vitalità di una generazione che non ha fine.
Sin dai primi passi della Comunità Missionaria della Trinità, abbiamo voluto vivere l’accoglienza degli ospiti con quella finezza suggerita dall’amore, perché ognuno si sentisse accolto “in casa”, “in famiglia”, si sentisse abbracciato dalla comunione trinitaria. Chiunque arriva, a qualunque ora, è il benvenuto e la sua presenza è da subito percepita come dono e non solo quando chi arriva non viene a mani vuote, ma perché in lui riconosciamo la presenza del Signore che ci visita. Nell’accogliere vogliamo dare quel poco che abbiamo e quel poco che siamo, certi che nell’incontro con il fratello o la sorella incontriamo il Signore! La nostra casa vuole essere una casa che accoglie, ma soprattutto vogliamo rinnovarci costantemente nell’essere una famiglia che accoglie.
Ospitalità è dunque creare uno spazio dove l’altro, lo sconosciuto possa entrare e diventare amico, uno spazio ove Dio possa incontrare il fratello, dove egli possa sentirsi amato così com’è, dove possa fare esperienza di Dio Trinità; uno spazio di incontro per vivere relazioni di vera fraternità, di amicizia, uno spazio per ritrovare stili di vita coerenti al Vangelo, dove il più piccolo, il povero si senta amato in modo speciale, perché in lui incontriamo la Trinità: “Chi accoglie uno solo di questi piccoli, nel mio nome, accoglie Me; e chi accoglie Me, non accoglie Me, ma colui che mi ha inviato” (Mc 9,37).
La casa per se stessa, anche se pulita, ordinata non fa accoglienza. È la comunità che si fa “casa di accoglienza”, abbraccio, dimora, che offre a ciascuno il proprio essere famiglia. Non è solo il singolo missionario, missionaria che accoglie, ma ciascuno diviene espressione di un “noi”, dell’accoglienza di tutti e soprattutto dell’accoglienza del Signore stesso che in modo speciale sceglie di farsi presente e di prendere dimora là dove le persone vivono la fraternità, la reciprocità: “In lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,22). In un certo senso possiamo dire che la comunità diviene “sacramento” della Presenza di Dio tra gli uomini; sacramento che Dio ha scelto per manifestare al mondo la sua volontà di camminare con l’umanità, di intrecciare la sua storia con essa.
Per questo motivo la prima “casa” che desideriamo offrire all’uomo non è costituita semplicemente dall’ambiente fisico, ma in particolare dalla nostra vita di comunione, dal nostro essere comunità. Attraverso l’amore scambievole che cerchiamo di vivere tra noi desideriamo essere segno visibile e luogo della Presenza della Trinità.
Perché questo sia possibile, però, è necessario un allenamento, una palestra quotidiana dove ognuno si impegna a vivere anzitutto l’accoglienza verso se stesso, per accogliere le proprie fragilità, i propri limiti, le proprie paure, per riconoscere i propri doni, per sentirsi amato per ciò che è. Il secondo esercizio è accogliere l’altro con i propri doni, i propri limiti, le proprie paure e fragilità. La Comunità diviene così luogo in cui l’uno accoglie l’altro e tutti accolgono ciascuno; un’accoglienza che trasforma ogni diversità, limite, fragilità in ricchezza. Tra chi accoglie e chi è accolto nasce uno scambio di vita e di doni dove Dio elargisce la sua benedizione.
L’allenamento all’accoglienza ci rende sensibili, premurosi verso il fratello o la sorella ammalati, stanchi, in difficoltà, ci rende capaci di intuire le attese e i bisogni di chi ci sta accanto e di chi è lontano; di confortare, di ascoltare o di dire quella parola che il fratello o la sorella hanno necessità di ricevere.
Vorremmo inoltre che la nostra casa non avesse confini e che chi vi entra possa trovare l’umanità tutta, attraverso il racconto delle nostre esperienze missionarie, attraverso uno stile semplice e sobrio che ci impegniamo a vivere ogni giorno ricordando quella grande porzione di umanità impoverita, sofferente, sfruttata… O ancora, desideriamo che la nostra casa sia luogo di incontro con l’umanità grazie ad immagini e oggetti tipici che valorizzano la bellezza di popoli e culture diverse e soprattutto grazie alla possibilità di trovare uno spazio di impegno missionario e di servizio gratuito aperto a tutti.