Là dove la pace è lontana
“Conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari”: questa è la definizione della parola guerra. Tutti noi abbiamo presente le immagini terribili che scorrono sotto i nostri occhi attraverso i molteplici schermi che incrociamo quotidianamente: Ucraina, Israele, Palestina, Cisgiordania….
Ma con questa definizione è una guerra anche quella che il Messico combatte dal 2006 contro i cartelli della droga (e che i cartelli combattono tra loro) e che nel 2023 ha fatto più di 7mila morti. O quella che si svolge in Nigeria dal 2009 e in cui, in un solo anno, sono morte più di 8.500 persone. Sono guerre quelle in Siria – 6 mila morti nel 2023; in Iraq, quasi 1.500 morti; nello Yemen 3.481 morti; nella regione del Tigray, in Etiopia 3.600 morti. Si può definire guerra quella che devasta il Myanmar. L’Afghanistan, in guerra dagli anni Settanta, con milioni di vittime.
È però ancora l’Africa il continente che ospita la maggior parte dei potenziali punti caldi, a cominciare dalle tre nazioni: Burkina Faso, Mali e Niger. Ultimamente si parla spesso anche dell’isola di Haiti, dominata da bande criminali e da anni sull’orlo del collasso dello Stato dopo l’assassinio del presidente Moise nel 2021.
Secondo l’edizione del Global peace index (Institute for Economics & Peace, Giugno 2024), nel mondo sono attivi 56 conflitti, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Già nel 2014 papa Francesco parlò per la prima volta della terza guerra mondiale a pezzi e non fu difficile credergli. Il papa parlò di conflitti dimenticati, disseminati in vaste aree del mondo: se si allarga lo sguardo però, si scoprono che sono collegati per cause e corresponsabilità, per effetti e rischi di allargarsi. A distanza di 10 anni, a gennaio, il papa ha ribadito che la guerra mondiale a pezzi si sta trasformando in vero e proprio conflitto globale «grazie all’enorme disponibilità di armi» ed ha esortato a «perseguire una politica di disarmo» ribadendo «l’immoralità di fabbricare e detenere armi nucleari».
Molto più di conflitto
Guerra che non significa solo morte e distruzione, ma anche migrazione, carestia, diritti umani violati e perdita d’identità. Rispetto al passato poi, assistiamo ad un continuo bombardamento di immagini violente che passa attraverso i social network, dove nulla ci è risparmiato e dove comunque è difficile districarsi tra notizie vere o false, tra dati certi e propaganda. A questo bombardamento reagiamo nei più svariati modi: rabbia, senso di impotenza, diffidenza, rassegnazione, assuefazione, indifferenza…
Un altro termine che ormai si è affermato, parlando di guerre, è domicidio (dal latino “domus”, casa, e “caedo”, colpire, uccidere). “È quando in un conflitto si rade al suolo una città rendendo quel posto un territorio inabitabile per lungo tempo, non salvando infrastrutture né palazzi residenziali”. Da Dresda, Amburgo, ieri, a Mariupol, Aleppo, Gaza… oggi. Tanto da spingere le Nazioni Unite a discutere sulla necessità di classificare il domicidio di massa come un crimine contro l’umanità, perché, oltre a creare un paese di sfollati, senza più case, ospedali, scuole, si cancella la memoria storica di un popolo, si cancella la sua identità. Si privano le persone del luogo della loro intimità, con tutti i traumi che questo comporta. (tratto liberamente da Ansa.it, 8 gennaio 2024, Società e diritti)
Proviamo ad immaginare la vita senza più niente dei nostri ricordi o la vita di bambini che trascorreranno tutta la loro infanzia senza il calore di uno spazio domestico che li protegga, in balia della promiscuità dei campi profughi?
Pace è costruire relazioni
“Oltre il nemico dobbiamo cercare di vedere l’uomo, si fermi la guerra…” l’appello fatto a inizio anno da Papa Francesco, che riprendiamo per ricordare la Giornata internazionale della Pace, oggi 21 settembre. Abbiamo raccolto fin qui tanti dati sulle tante guerre in corso. Perché? Innanzitutto, perché conoscere la realtà ci apre sempre gli occhi e anche il cuore. Assieme si può anche provare a superare il senso di impotenza che viviamo come gente comune che non ha poteri decisionali a livello politico internazionale. Certo, informarsi, documentarsi, permette anche di formarsi una coscienza critica che può influenzare le decisioni politiche dei propri paesi, ma resta un senso di inadeguatezza. Come vivere, ripensare, temi così vasti e complicati come la pace?
In un’intervista (Avvenire, 24/4/2024), il cardinale Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme, ricorda che uscire da certe situazioni incancrenite richiede tempo, ascolto reciproco e non imposizioni dall’alto, spesso fallimentari in partenza. Fermo restando la necessità di un cessate il fuoco, auspica soluzioni che partano dal basso, che abbiano come base l’ascolto delle ragioni e del dolore dell’altro. “È difficile e soprattutto faticoso. Il dolore tende spesso ad essere egoistico: È il mio dolore che tu non puoi capire, è il mio dolore che comunque è sempre superiore al tuo. La fatica allora consiste nel facilitare questo confronto inducendo ognuno a riconoscere il dolore dell’altro”. Oggi più che mai la prima forma di carità è l’ascolto. Per questo coglie le feste religiose come un’occasione importante di reciproco riconoscimento e di dialogo. Senza grandi discorsi, stare insieme per consumare un pasto, bere qualcosa, contribuisce ad abbattere i muri che separano. Oggi costruire relazioni è fondamentale per la Pace. “Relazioni con gli “altri” da noi, nella consapevolezza di essere i loro “altri”.”
Il perdono unica arma concessa
E come lo stesso cardinale Pizzaballa ha ricordato al Meeting di Comunione e Liberazione, la relazione con l’altro non può prescindere dal perdono. Per quanto sia difficile parlare e ancor più vivere il perdono, in situazioni così drammatiche e terribili come in una guerra, il perdono è l’unica “arma” concessa per dissipare ogni spirito di vendetta, di ritorsione, per invertire l’escalation.
«La comunità cristiana deve portare dentro il dibattito pubblico la possibilità del perdono. Forse ora non si può fare. Bisogna attendere e lavorare a livello personale, comunitario e pubblico. Parlare di perdono in Terra Santa non è un’astrazione. Giustizia, perdono, sono per noi parole importanti, difficili e che toccano concretamente la carne e la vita delle persone». Certo, «perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza significa giustificare un male che si sta compiendo. Il perdono richiede dinamiche che vogliono tempo, un processo di guarigione e un tempo di riconoscimento del male e dell’ingiustizia commessa. Il perdono ha bisogno anche di una parola di verità… Non è semplice. Lo scopo non è relegare l’altro in un angolo, ma superare questa situazione: e questo lo può fare solo il perdono.»
(Card. Pizzaballa)
E il perdono prima di diventare “scelta di donarlo” è un’esperienza personale e un dono da chiedere per “imparare a riconoscerci figli di uno stesso Padre che ci ama infinitamente. Anche in questo senso “ci è rimasta solo la preghiera”. Affidiamo ogni nostro dubbio, paura, incapacità, a Maria, regina della pace.